L’invasione dei “Forgotten man”

La Politica e i figli di una cultura minore

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di Francesco Castellini

La politica è morta. “W la Politica”. E sì, perché di parvenue, di agitapopolo, di Masanielli imbufaliti e ridicoli, non sappiamo più che farcene.
Se la politica è morta sarà allora il caso di ricordare che di vera politica abbiamo bisogno, come il pane.
Perché con l’acqua sporca non si può buttare anche il bambino e la politica è un’arte, nobile e antica, e dunque va lasciata fare solo a chi la sa fare.
Ovviamente stiamo parlando di Politica vera, di quella che cambia il destino dei popoli, che sa scegliere e utilizzare le risorse umane e materiali, che sa progettare e costruire, e non si affida al primo che passa.
E invece ora tra le macerie d’Italia, d’Europa e del mondo, si vede camminare a testa alta solo lui: il forgotten man, scartato nella crescita, ferito con la crisi, deluso dalla rappresentanza, ma che, per il solo fatto di essere un arrabbiato per professione, incazzato per contratto, outsider che vive beandosi dei disastri altrui, si sente vivo, appagato, rispettato e importante.

Ma allora sarà bene ricordare che il forgotten man non è altro che il figlio legittimo della vecchia cultura da bar, di quelli che, sentendosi come allenatori della Nazionale, sanno sminestrare campioni e tattiche e che ora, dopo averla menata per generazioni e generazioni davanti ad un caffé, fra un cicchetto e l’altro, adesso stanno lì a cantarsela per il solo fatto che i partiti sono estinti e che al loro posto ha preso slancio l’antipolitica, la contropolitica, il ribellismo puro e duro.

Il forgotten ha scoperto con suo stesso stupore che nell’improvvisa fragilità del sistema la sua rabbia è diventata un urlo potente, molto, ma molto ascoltato.

Certo, lui non ha strumenti validi, capacità, preparazione di sorta, è solo un analfabeta della politica, e dunque non saprà mai proporre valide soluzioni, o disegnare progetti, ma sa che è in grado di presentare a chiunque il saldo di tutto, elencare alla perfezione tutto ciò che gli altri non fanno.
È cosciente che a forza di denigrare, sputare veleno su tutto e su tutti, alla fine riuscirà a svuotare e mettere il potere nel sacco.

Gli istinti naturalmente non governano: ma questo è un problema di domani, intanto oggi si diventa protagonisti, si esiste, si scalcia.

E colpo su colpo si è arrivati al “Populismo 2.0”, che in fondo non è che un altro modo di definire la patologia senile di una democrazia estenuata e svuotata da processi oligarchici, e che in questo momento ha lasciato il vuoto e dato spazio alla rivolta degli esclusi.

Il populismo che ritorna sempre come sintomo di un indebolimento dell’organismo democratico, una febbre della rappresentanza malata, che lascia spazio a quella “oclocrazia” (quando il popolo ambisce alla vendetta), evocata da Polibio, che altro non è che uno stato d’animo agitato e ostile.

Un’epidemia che si sta espandendo e che dà forma al disagio, alla manifestazione di visibilità degli invisibili; con la retorica del “popolo”, del “basso contro l’alto”, del “tradimento” da parte delle élite, che mette anche i non poveri nella condizione psicologica di depredati, dunque di offesi, comunque di vittime, di umiliati perché esclusi, ostacolati, impediti e marginalizzati.

È la strutturazione drammaturgia di una nuova forma di conflitto politico-sociale, o addirittura culturale, vissuto come morale, etichettato come etico.

Naturalmente i germi del neopopulismo hanno bisogno di una “coltura” speciale, di un ambiente favorevole per crescere e moltiplicarsi.
E non a caso la forza la trovano nell’emergenza conclamata di tre crisi congiunte, quella economica, quella migratoria, quella del terrorismo.

Un panorama omologato, che sta generando mostri della ragione.

Elenchiamoli tutti: Trump e la Brexit; la Francia di Marine Le Pen che sostituisce un neosciovinismo sociale al nostalgismo vichysta del padre; il muro sovranista di Orban in Ungheria; gli umori neri dell’AfD in Germania, per affacciarsi infine alla fabbrica italiana di tutti i populismi.

Eppure ci dev’essere il modo di parlare a quell’uomo che ha fatto del bar il suo humus profondo, prima che arrivi l’ultimo degli idioti a portarselo via e farlo agire contro se stesso.

Per questo “W la Politica”, la politica vera, quella che all’improvvisazione e al vaffa, preferisce manager preparati e talentuosi, frutto di una selezione che solo le vere scuole di partito possono assicurare.

C’era una volta una pubblicità che recitava: “La fiducia si dà alle cose serie!”.
Beh è il caso di iniziare a ripetercelo ancora, come un mantra infinito.

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